2 – [ … ] Noi abbiamo perduto l’abitudine di sentire la forza delle parole che usiamo, ma se lasciamo posare la nostra attenzione su questa parola “presenza” possiamo coglierne una dimensione veramente fondamentale per la nostra esistenza. La nostra esistenza stessa è una questione di presenza. Presenza a noi stessi, poi, per rimbalzo, al mondo intero, a ciascun essere e a ogni avvenimento. In una parola, presenza alla realtà. Presenti al reale. Ecco il cuore stesso della pratica del buddhismo zen. Se noi guardiamo da vicino, non ci manca niente. Siamo solo noi che “manchiamo” a noi stessi. E questo implica un progredire e un impegno profondi e interi di ciò che siamo. Ma giustamente: che cosa siamo?
Questa vita è sofferenza
”Se questa constatazione fatta dal principe Siddharta può parere semplicistica e un pochettino sommaria, sottolinea comunque una realtà per la quale, in modo più o meno regolare, passiamo tutti, quali che siano le nostra condizioni, le nostre scelte, le nostre convinzioni e i nostri sforzi. Da questa fredda constatazione, quello che dobbiamo cercare di cogliere sono le cause di questa sofferenza che attraversa le nostre vite.
La prima causa è senza dubbio il fatto che l’uomo non vive al “posto” giusto; noi viviamo cioè sistematicamente nel nostro passato, che per definizione non esiste più, e rimuginiamo, rimpiangiamo, non smettiamo di deplorare e lamentarci guardandoci indietro. A fianco di questo abbiamo anche questa spiacevole pretesa di cercare di vivere nel futuro, che allo stesso modo per definizione non esiste (ancora); e qui ci si crea delle aspettative, e con queste aspettative delle angosce, delle speranze che non si appoggiano su alcuna possibile oggettività perché se fosse agevole e semplice prevedere perfettamente lo svolgimento del nostro avvenire, il problema del “malessere” dell’uomo sarebbe già liquidato.
È in questo modo che il passato, proprio come il futuro, ci immerge nel sogno. Nell’illusione. Un mucchio di illusioni che noi crediamo essere la realtà quando non la verità. Ora, chiudete gli occhi e immaginate che io batta fortemente le mani, qui e ora. Una volta che le mani hanno battuto dove se ne è andato il rumore? Per utilizzare un linguaggio caro al buddhismo zen: “Quando il fiore appassisce, dove se ne va il suo profumo?” Il passato non esiste più. Il futuro non esiste ancora. C’è dunque un solo spazio-tempo nel quale noi esistiamo realmente ed è qui, ora. E appena nominato è già sparito, inghiottito dal passato, e contemporaneamente condiziona già il futuro. C’è, in questa presa di coscienza, l’asse fondamentale di tutto l’insegnamento buddhista.
Tutto appare, poi tutto scompare, senza sosta. Non c’è verità fondamentale e duratura, non possiamo trattenere niente tra le nostre mani, tutte queste etichette che appiccichiamo sulla realtà sono illusioni, tutti i nostri giudizi su noi stessi e sul mondo sono illusori. Le illusioni…la seconda grave causa del nostro “malessere”.
Nulla esiste
Se tutto appare e tutto scompare senza sosta in questo mondo, questo significa dunque che nulla esiste. Qui non si tratta di nichilismo o di sciocco negazionismo. Ma di una rivelazione profondamente sconvolgente. Se l’insegnamento buddhista afferma che nulla esiste, è per esprimere molto chiaramente che non c’è alcuna verità assoluta. Bello e brutto, buono e cattivo, fortuna e sfortuna, cretino e intelligente, eterosessuale e omosessuale, etc. Tutta questa dualità nella quale noi imprigioniamo il mondo e noi stessi non è che illusione. Non c’è peraltro bisogno di essere buddhisti per comprendere questo. Quello che è buono per me, può veramente essere sbagliato per altri; la situazione che mi fa felice oggi può velocemente trasformarsi nel mio peggior inferno…
Se niente esiste in maniera immobile, se tutto cambia senza sosta, se tutte le manifestazioni dell’universo si intrecciano e si riciclano instancabilmente in nuove manifestazioni ed esperienze, questo sottolinea che è ora di affrettarsi ad assaporare pienamente l’esistenza che sta qui sotto il mio naso, ora, tale qual’è. Senza giudicarla, senza dogmatizzare, senza etichette illusorie e soprattutto senza attaccamenti. Si parla spesso di distacco nel buddhismo, e il nostro immaginario semantico traduce questa nozione con “rifiuto”. Per parte mia preferisco parlare di “non attaccamento”. E la differenza non è da poco. Assaporare la vita che non è da nessuna parte se non nel posto medesimo in cui mi trovo, assaporarla pienamente, radicarmi nell’esperienza e mantenere le mani sempre aperte per tutto ricevere e subito tutto lasciar ripartire.
Il Nirvana
Il Nirvana non è nient’altro che questa capacità profonda di ritornare ad una esistenza vissuta pienamente nell’istante, libera dai rimpianti morbosi del passato o dalle fantasticherie compulsive del futuro. È un cammino di liberazione. Non più vivere nell’illusione, ma nella realtà presente, cosciente che tutto si modifica, tutto cambia, tutto passa e di conseguenza non posso trattenere nulla. Questa profonda liberazione conduce l’individuo a una grande libertà. Questa libertà, impastata di gratitudine e di reale oggettività, potrebbe tradursi con quello che viene chiamato “ritornare alla nostra natura di buddha, la nostra autentica natura”. E di cosa si tratta? Non significa affatto rassomigliare a Buddha. Imitare. Portare un Buddha Sakyamuni in sé… In effetti Buddha non è un nome proprio, ma un aggettivo che potrebbe tradursi con “risvegliato”. Il Buddha storico si chiamava Siddharta. È in questo senso che un giorno disse: “Tutti gli esseri possiedono la natura di buddha”. Detto altrimenti, tutti noi celiamo in noi stessi, nella nostra realtà più profonda, una immensa saggezza risvegliata. [ … ]
(Da: Il Buddhismo zen – La Via di mezzo – Una corrente del Mahayana – Evangile et liberté in italiano del 27-02-12. Federico Djong Do Procopio, traduzione Giacomo Tessaro)