Se esiste nella nostra civiltà una fantasia radicata e incrollabile, è quella secondo la quale ciascuno di noi è figlio dei propri genitori e il comportamento di nostra madre e di nostro padre è lo strumento primo del nostro destino. Così come abbiamo i loro cromosomi, allo stesso modo i loro grovigli e i loro atteggiamenti sono gli stessi nostri. La loro psiche inconscia – le collere rimosse, i desideri irrealizzati, le immagini che sognano la notte – conforma congiuntamente la nostra anima e noi non riusciremo mai e poi mai a venire a capo di questo determinismo e a liberarcene. L’anima individuale continua a essere immaginata biologicamente come un frutto dell’albero genealogico. La nostra psiche nasce da quella dei nostri genitori, così come la nostra carne nasce dai loro corpi.
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Da qualche parte, tuttavia, un folletto continua a sussurrare un’altra storia: «Tu sei diverso; non assomigli a nessuno della famiglia; tu non sei dei loro». Nel cuore si annida un eretico, che chiama la famiglia una fantasia, una superstizione.
Del resto, il modello biologico stesso presenta smagliature che lasciano perplessi. Sappiamo spiegare e praticare più facilmente la contraccezione che non la concezione. Che cosa avviene in realtà in quel compatto, verginalmente integro, solitario ovulo, che permette a quell’unico particolare spermatozoo, tra milioni, di penetrare? Ma forse sarebbe più giusto chiederlo allo spermatozoo: ce n’è uno tra voi che è più furbo, più intraprendente degli altri o forse più congeniale, che sente una maggiore affinità? O è un caso, una questione di «fortuna»… ma poi, che cosa si intende per fortuna? Sappiamo molte cose sul DNA e sui risultati della congiunzione, ma rimane intatto il mistero sul quale Darwin spese la vita, il mistero della selezione.
La teoria della ghianda propone una soluzione antica: è stato il mio daimon a scegliere sia l’ovulo sia lo spermatozoo, così come aveva scelto i portatori, detti «genitori». La loro unione deriva dalla mia necessità, non il contrario.
Questo non aiuta forse a spiegare le unioni impossibili, le incompatibilità e le mésalliances, i veloci concepimenti e i bruschi abbandoni che si verificano tra i genitori di molti di noi, e in particolare nelle biografie delle persone eminenti?
Lui e lei si sono messi insieme non per unirsi ma per concepire quella persona unica e irripetibile, dotata di una particolare ghianda, che poi sono risultato essere io.
Prendiamo, per esempio, la storia di Thomas Wolfe, lo strabordante, fluviale scrittore neoromantico delle Smoky Mountains, nato il 3 ottobre del 1900. I suoi genitori, scrive il suo biografo Andrew Turnbull, si unirono in «un’epica mésalliance. Sarebbe difficile immaginare due persone più incompatibili per temperamento».
Il padre era «prodigo, sensuale, espansivo»; la madre «coriacea, parsimoniosa, repressa». Come avranno fatto a incontrarsi? Una quindicina di anni prima della venuta su questa terra di Thomas Wolfe, sua madre, Julia Westall, una maestrina di campagna di ventiquattro anni, capitò nella bottega di W.O. Wolfe, un marmista specializzato in lapidi che aveva al suo attivo un divorzio e una vedovanza. Ci entrò per vendere dei libri (arrotondava così le sue entrate). «Dopo aver dato un’occhiata al libro che voleva vendergli, lui sottoscrisse l’ordine. Poi le chiese se le piacevano i romanzi. «“Oh, leggo di tutto” rispose Julia. “Un po’ meno la Bibbia. Insomma, non quanto dovrei”. «W.O. disse che a casa aveva alcuni bei romanzi d’amore, e quel pomeriggio … le fece recapitare St. Elmo, di Augusta Jane Evans. Alcuni giorni dopo, quando Julia ripassò per vendere un altro libro … W.O. insistette perché si fermasse a pranzo, dopo di che la condusse di là per mostrarle allo stereoscopio i suoi dagherrotipi della guerra civile … le prese la mano, disse che era un po’ che la osservava passare davanti alla sua bottega, e le chiese di sposarlo. «Julia … obiettò che praticamente non si conoscevano neppure. Ma W.O. era talmente deciso che alla fine Julia propose di aprire a caso il libro che si era portata da vendere, dicendo che si sarebbe regolata in base al capoverso centrale della pagina di destra –“Una vera sventataggine da parte mia” ebbe a commentare anni dopo –e andò a pescare proprio la descrizione di uno sposalizio, con le parole: “finché morte non ci separi”. “Ecco!” esclamò W.O. “Sta scritto! Bisogna ubbidire”. Il matrimonio fu celebrato a gennaio, tre mesi scarsi dopo la avventata proposta».
Gli opposti che si attraggono, gioventù e vecchiaia; semplice convenienza (un appoggio economico per lei, una governante per lui); sadomasochismo; ricerca del padre, identificazione paterna; pressione sociale sulle persone non sposate… Le spiegazioni possono essere tante, ma a voi sembrano convincenti? Perché non prendere quanto meno in considerazione che i due si siano incontrati «perché era scritto»? Lei lo aveva avvicinato proponendogli un libro; lui aveva risposto imprestandole un libro; la cosa fu decisa aprendo un libro e il frutto di quella unione libresca fu Thomas Wolfe, scrittore di libri. Quando Thomas aveva due anni, i genitori erano soliti «fargli leggere qualcosa ad alta voce per intrattenere gli ospiti». Julia, da parte sua, era convinta di essere stata l’invisibile artefice del talento letterario del figlio perché durante la gravidanza aveva «trascorso i pomeriggi a letto a leggere». Quanto ai sei fratelli e sorelle di Thomas, le loro ghiande erano di tipo diverso e avevano scelto quei genitori per altre ragioni. Come sempre, è nella persona eccezionale che questo processo si manifesta nel modo più evidente. Dunque Thomas Wolfe fu in realtà chiamato in quella famiglia di Asheville, North Carolina, e i suoi genitori furono chiamati l’una verso l’altro per costruire quella famiglia, in modo che egli potesse fare ciò che andava fatto. Come, altrimenti, avrebbe potuto scrivere i suoi libri, se non avesse «conosciuto» i suoi genitori prima che essi conoscessero lui? Fu la mano di un angelo ad aprire il libro a quella pagina, concependo Julia e W.O. come suoi genitori prima che essi concepissero lui come loro figlio.
(Da: “Il codice dell’anima”, James Hillman)
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