“Un’antica storia racconta di un monaco che voleva sapere il significato della pratica (meditativa – ndr). […]
«Un monaco chiese a Hsiang Li: ‘Qual è il significato della venuta del Patriarca dall’occidente [=qual è il senso dello zen?]’. Hsiang Lin rispose: ‘Sedere a lungo diventa faticoso’».
Tutti ci accostiamo alla pratica con alcune domande fondamentali alle quali cerchiamo di rispondere. Forse vogliamo sapere come dobbiamo vivere; forse stiamo cercando di capire come possiamo affrontare la sofferenza o il lutto o i problemi della nostra relazione. […] Con questa domanda il monaco sta però domandando al maestro di mostrargli ciò che tutti vogliamo sapere, di mostrargli una qualche verità fondamentale a cui potersi attenere. Qual è l’essenza stessa della nostra pratica? […] Hsiang Lin risponde semplicemente: «Sedere a lungo diventa faticoso».
[…] Tutti sanno che lo zazen è doloroso e stancante. Hsiang Lin non gli dice nulla che già non sappia. Ma il monaco sta ancora cercando la risposta al di là della sua semplice esperienza quotidiana di questo momento. Quando Dogen ritornò dalla Cina, […] qualcuno gli domandò cosa avesse imparato. Rispose di aver imparato che i suoi occhi erano orizzontali e il naso verticale. Chi non lo sa? Ma quanti di noi riconoscono che questa è la risposta alle nostre domande più fondamentali? […]
Nella nostra pratica quotidiana dobbiamo scoprire ed esprimere la verità fondamentale che questa mente, questo corpo, questo momento sono tutto ciò che abbiamo, tutto ciò che c’è. Arriviamo alla pratica convinti che la mente così com’è, il corpo così com’è, siano il problema. Chi vorrebbe una mente che divaga o due ginocchia doloranti, per non parlare di un corpo che invecchia e che contrae una grave malattia? Ma la pratica non ci insegnerà mai a scambiare questa mente con un’altra o sostituire questo corpo con il corpo di qualcun altro. E nemmeno dobbiamo esercitare il corpo e la mente per trasformarli in versioni nuove e migliori di quelle che già abbiamo. […] Date ascolto a Hsiang Lin: questo vecchio corpo stanco non è il problema; è la risposta.
[…] Vogliamo sfuggire a qualcosa che crediamo sia sbagliato in ciò che siamo, sfuggire a tutto ciò che ci lascia vulnerabili alla sofferenza. Non ci rendiamo conto che il tentativo di sfuggire è in se stesso il motore della nostra sofferenza. Gradualmente, però, la nostra pratica può permetterci di venire a patti con chi e cosa siamo […]. In quell’attimo potremmo anche pensare di aver raggiunto lo scopo che da tanto tempo inseguivamo […].
Non appena abbiamo pensato di aver raggiunto un qualche nuovo stato perfetto, permanente e invulnerabile, abbiamo tradito l’essenza stessa della nostra realizzazione. […] Solo quando abbiamo cessato di sfuggire l’impermanenza e la vulnerabilità, siamo stati capaci dopo tutto di sperimentare noi stessi come buddha. Ma ora la realizzazione diventa qualcosa a cui vogliamo afferrarci. […]
Dobbiamo uccidere qualsiasi nozione abbiamo che ci sia qualcosa da ottenere, qualcosa a cui afferrarci, qualcosa di speciale che possiamo diventare una volta per tutte. L’illuminazione non è una ‘cosa’ che ‘otteniamo’ dalla pratica. […] Quando non c’è nulla e non resta nulla che ostruisca, allora la limpida brezza spirerà liberamente in tutte le direzioni“.
Barry Magid, allievo di Joko Beck, è psicanalista e fondatore dello zendo The Ordinary Mind (New York).
(Da: Guida zen per non cercare la felicità – Barry Magid)
– Barry Magid – Macrolibrarsi
– Barry Magid – Amazon
– https://en.wikipedia.org/wiki/Barry_Magid
– Fonte lameditazionecomevia.it