Nella tradizione Zen c’è la pratica del Koan. Il koan dovrebbe essere qualcosa in cui sei profondamente interessato, la tua più profonda “preoccupazione”. Vuoi davvero comprendere, vuoi trasformare. È come quando sei colpito da una freccia, e porti la freccia con te nella tua carne, in piedi o seduto, sveglio o addormentato, la freccia è con te. Il Koan dovrebbe essere una cosa così. La tua vita quotidiana è completamente focalizzata su di essa. Qualcosa che richiama tutta la tua energia, il tuo interesse, la tua consapevolezza, e l’abbracci giorno e notte, guardando in profondità, e un giorno arriva la visione, e allora vedi e ti liberi.
Perciò il koan è qualcosa che dovrebbe riuscire a richiamare tutta la tua concentrazione, tutta l’energia, altrimenti non può esserci una trasformazione. Per esempio, la sofferenza nel medio Oriente è un koan per l’intera umanità, non soltanto per gli Israeliani e i Palestinesi. Ma noi esseri umani siamo così indaffarati, non siamo un sangha, non abbiamo abbastanza consapevolezza, concentrazione, non riusciamo a vedere il koan. Diamo un po’ di attenzione, poi la distogliamo, ci interessiamo di altre cose. Perciò non è ancora un koan per la famiglia umana. Quando il maestro comprende le difficoltà e la sofferenza del discepolo, offrirà un koan, come: “dimmi, qual è il suono fatto da una sola mano?”. Di solito abbiamo bisogno di due mani per produrre un suono. “Qual è il suono prodotto da una sola mano?”. Questo è un espediente abile, per aiutare il discepolo a scoprire, comprendere la propria situazione, e il discepolo non può adoperare soltanto l’intelletto per arrivare alla comprensione. L’intelletto è soltanto una parte, più in profondità c’è l’inconscio, il subconscio, c’è il corpo, tutte le tue formazioni mentali, la coscienza deposito. Per questo motivo, il koan che viene offerto dal maestro non dovrebbe essere esaminato soltanto dall’intelletto, dovrebbe essere deposto nella profondità del tuo essere, e durante la vita quotidiana lo porti con te giorno e notte, mangiando, camminando, facendo qualsiasi cosa, lo abbracci, a tempo pieno, che si tratti della tua sofferenza, o di una situazione critica. Questo è il koan. Dovresti riuscire a mobilitare tutta la tua forza, tutta la tua energia, tutta la tua consapevolezza e concentrazione, allo scopo di abbracciare in profondità quella difficoltà, quella situazione, e giorno e notte, in ogni momento fai soltanto questo, lo abbracci teneramente, e un giorno, con il sostegno del sangha, ci sarà la rivelazione.
La visione può venire da te, può venire dal sangha, oppure la tua visione è stata aiutata dal sangha, può essere l’espressione della visione collettiva del sangha, perché vivi con il sangha e il sangha lavora con te e ti sostiene nel tentativo di comprendere la situazione. Quando la pratica raggiunge il livello del sangha, diventa molto potente, se l’intero sangha abbraccia il tuo dolore, giorno e notte, e guarda in profondità nel tuo dolore con l’energia della consapevolezza e della concentrazione. Allora ci sarà un rapido sollievo e ci sarà la comprensione che ti aiuterà a superare la sofferenza, a vedere il sentiero e a trasformarti, liberarti.
È così che funziona, per te e per il sangha.
Vorrei offrire un esempio. C’è una comunità denominata “Ordine dell’Interessere”, composta da molti membri. È stata fondata in Vietnam durante la guerra, nel 1963-64. È composta da monaci e da laici, e da due comunità: la comunità-nucleo, coloro che hanno preso i 14 addestramenti, e la comunità estesa, coloro che partecipano a molte attività anche se non hanno preso gli addestramenti in modo formale.
Come comunità abbiamo bisogno di un po’ di organizzazione, ma abbiamo imparato che se siamo troppo organizzati non va bene. Abbiamo visto la differenza tra organizzazione e organismo. Un organismo che funziona bene ha un certo tipo di organizzazione, ma non è intenzionale. Se c’è armonia, se c’è comprensione, allora non avete bisogno di “organizzare”, eppure l’organizzazione è perfetta. Se guardate una comunità di api, non vedete capi che danno ordini, tu fai questo, tu fai quello , perché l’alveare è un organismo, e contiene in sé un elemento di “essere insieme”, essere meravigliosamente insieme. Quando ci si riunisce come organismo, improvvisamente la visione si manifesta, e ognuno sa che cosa fare, e tutto diventa ben organizzato, senza cercare di organizzare. Molti di noi sono costruttori di sangha, e sappiamo che più cerchiamo di organizzare più ci saranno problemi. È il nostro modo di essere che genera il benessere della comunità, la nostra pratica di consapevolezza, concentrazione, comprensione, gentilezza amorevole, che compie il lavoro di organizzazione. Prima di morire il Buddha rispose così alla domanda che gli veniva fatta, se volesse nominare qualcuno che gli succedesse alla guida del sangha: “No, non abbiamo bisogno di un leader. Sapeva molto bene che il sangha è un organismo, e che se tutti praticano bene tutto funziona, non c’è affatto bisogno di un leader. Il Buddha non si considerava un leader, un direttore, un capo. Era molto soddisfatto di essere un monaco, di elemosinare il cibo come tutti gli altri monaci, e sedersi ai piedi dell’ albero della bodhi come gli altri monaci. Ma era una grande ispirazione per tutto il sangha. È questo che dovremmo fare: essere una ispirazione per il sangha, attraverso il nostro modo di agire con armonia e compassione. Il fondamento dell’azione è nell’essere, se sappiamo come essere, naturalmente non dobbiamo preoccuparci del fare.
Molti di noi avevano pensato che dobbiamo organizzarci un poco perché siamo l’ordine dell’Interessere, ora i membri nel mondo sono più di 800, è quasi una “organizzazione” (Thay ride). Il vaticano è organizzato molto bene come religione. Ma non è quello che vogliamo noi, noi non vogliamo che l’ordine dell’ Interessere diventi così, è l’ultima cosa che desideriamo. Vogliamo che l’Ordine dell’Interessere sia un organismo vivente, non vogliamo nessun capo, nessuna guida né direttore. E qualcuno si interroga: “ Come possiamo sopravvivere senza una qualche organizzazione?”
All’inizio qualcuno ha pensato così, ma ormai si è svegliato all’evidenza che abbiamo bisogno soltanto di “essere”. Quando il sangha si riunisce, e c’è armonia, questo basta. Non avete bisogno di fare nient’altro.
Vi comportate come uno stormo di uccelli che volano insieme, come una formazione, bellissima, molto potente. Il sangha è così.
Allora la domanda: “come far sì che l’ordine dell’Interessere possa soltanto essere, ed essere una ispirazione per la società?” diventa il koan. E non può essere risolto soltanto dall’intelletto. Se vi riunite per discutere e organizzare, state usando soltanto l’intelletto. Ma quando sedete e respirate e meditate insieme, diventate un organismo, e la domanda “Come può l’Ordine dell’ Interessere diventare una ispirazione per il mondo?”diventa il koan. Come organismo avete soltanto bisogno di esserci e intrattenere teneramente questa domanda, questo koan, nella vostra mente, e la visione arriverà.
Non è organizzando, pensando tanto, che potrete rispondere a questa domanda. Ma è con la vostra presenza, generando l’ energia della consapevolezza, della concentrazione e della visione profonda che creerete l’energia dell’essere insieme in armonia. È questo il fondamento della visione di come essere un organismo che possa ispirare il mondo.
È chiaro?
L’energia della consapevolezza e dell’essere insieme realizza ogni cosa, non qualche programma di 5 anni, o cose di questo tipo.
Ma come fare perché il sangha possa incontrarsi e stare insieme tanto, tanto? Questo può portare tanta felicità, tanto sollievo, tanta trasformazione, tanta fiducia, perché il sangha genera sempre l’ energia della consapevolezza, della concentrazione e della visione. E il sangha diventa “santo” (holy) grazie alla pratica della consapevolezza. È molto bello vedere un sangha silenzioso, vivere in silenzio e in armonia. Si muove in modo morbido, delicato, silenzioso, e le cose accadono senza “organizzarle”, come le api, nessuno dà ordini agli altri, si guarda la situazione e si sa cosa fare, naturalmente. Possiamo imparare dalle api, dalle formiche, dai pesci, dagli uccelli. Gli scienziati oggi parlano della cultura animale, peché gli animali hanno un loro modo di vivere, una loro cultura. Possiamo imparare da loro, perché nella comunità umana c’è tanta sofferenza. Prevale l’individualismo, siamo profondamente divisi, abbiamo paura gli uni degli altri, ci detestiamo, ma non è così nelle comunità di api, di pesci, di uccelli.
Possiamo imparare molto da loro, nel processo di costruire il sangha, di diventare il fiume.
(Da: parte del discorso di dharma dell’8 giugno 2002 durante il ritiro dei 21 giorni: “le mani del Buddha”)
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