Nasr Eddin, un giorno, era di passaggio in una piccola città nella quale era appena morto l’Imam. Gli abitanti, avendo scambiato il viaggiatore per un sant’uomo, gli domandano di pronunciare il sermone del venerdì. Egli sale sul pulpito e rivolge la parola al numeroso uditorio.
«Cari fratelli, sapete di cosa vi parlerò?»
«No, no», rispondono i fedeli, «non lo sappiamo».
«Come?» esclama Nasr Eddin in collera, «voi non sapete di cosa vi voglio parlare in questo luogo consacrato alla preghiera? Non ho niente da spartire con tali miscredenti».
E in un baleno scende dal pulpito e lascia la moschea.
Impressionati per questa scenata, che li rafforza nella loro convinzione che l’uomo sia di una grande religiosità, le persone si affrettano ad andare a richiamare Hodja e lo supplicano di ritornare a predicare. Allora, risale sul pulpito.
«Cari fratelli, sapete forse in questo momento di cosa vi voglio parlare?»
«Sì, sì», rispondono in coro i fedeli, «lo sappiamo!»
«Figli di cani!» tuona Nasr Eddin. «Per due volte mi importunate perché io prenda la parola, e poi pretendete di sapere quello che io voglio dlre!?»
Quindi abbandona di nuovo il posto, lasciandosi alle spalle l’uditorio stupefatto: che cosa dunque dovevano rispondere perché quel santo accettasse di diffondere la sua conoscenza?
Una delle persone dell’uditorio suggerisce che, se fosse posta di nuovo la domanda, gli uni gridassero: «Sì, sì, lo sappiamo!», e gli altri: «No, no, non lo sapplamo!» L’idea è pertanto accettata, e corrono a chiamare Hodja, che sale sul pulpito per la terza volta.
«Insomma cari fratelli, inflne sapete di cosa vi voglio parlare?»
«Sì, sì», rispondono alcuni, «lo sappiamo!» «No, no», rispondono altri, «non lo sappiamo!»
«Finalmente!» conclude Nasr Eddin. «In questo caso, coloro che lo sanno lo dicano agli altri»
(Dalle Sublimi parole e facezie di Nasr Eddin Hodja)
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