Meditare significa lavorare con la nostra fretta, con la nostra irrequietezza, con la nostra costante attività. La meditazione procura quello spazio o quel terreno in cui l’irrequietezza possa funzionare, possa avere la possibilità di essere irrequieta, possa rilassarsi con l’essere irrequieta. Se non interferiamo con l’irrequietezza, allora l’irrequietezza diventa parte dello spazio. Non controlliamo né attacchiamo il desiderio di acchiapparci la coda.
La pratica della meditazione non consiste nel cercar di produrre uno stato mentale ipnotico o nel creare un senso di quiete. Il tentativo di raggiungere uno stato mentale di quiete riflette una mentalità povera. Cercando uno stato mentale di quiete, ci si mette in guardia contro l’irrequietezza. C’è un costante senso di paranoia e limitazione. Sentiamo il bisogno di stare in guardia contro gli improvvisi attacchi di passione o di aggressività che potrebbero sopraffarci, farci perdere il controllo. Questo metterci in guardia limita il campo d’azione della mente, poiché non si accetta qualsiasi cosa si presenti.
La meditazione dovrebbe invece riflettere una ricca mentalità, nel senso di saper usare tutto ciò che si manifesta nello stato mentale. Se perciò lasciamo posto sufficiente all’irrequietezza, così che possa funzionare entro lo spazio, allora l’energia cessa di essere irrequieta perché può fondamentalmente avere fiducia in sé. La meditazione fornisce un prato enorme e invitante a una mucca irrequieta. Per un po’ la mucca può essere irrequieta nel suo enorme prato, ma a un certo punto, essendoci tanto spazio, la sua irrequietezza diviene irrilevante. Così la mucca mangia e mangia e mangia ancora e poi si rilassa e si addormenta. Riconoscere l’irrequietezza, identificarsi con essa, richiede presenza mentale, mentre procurarsi un prato invitante, un grande spazio per la mucca irrequieta, richiede consapevolezza. Perciò presenza mentale e consapevolezza si integrano sempre a vicenda. Presenza mentale è mettersi in rapporto con le singole situazioni direttamente, precisamente, in modo ben determinato. Comunichi o ti colleghi con situazioni problematiche o irritanti in modo semplice. Ci sono ignoranza, irrequietezza, passione, aggressività. Non c’è bisogno di lodarle né di condannarle. Sono semplicemente considerate attacchi improvvisi. Sono situazioni condizionate, ma potrebbero essere viste accuratamente e precisamente da una presenza mentale non condizionata. La presenza mentale è come un microscopio, che non è un’arma e nemmeno una difesa contro i germi che osserviamo attraverso esso. La funzione del microscopio è semplicemente quella di far vedere con chiarezza cosa c’è. La presenza mentale non ha bisogno di riferirsi al passato o al futuro; è completamente nel presente. Allo stesso tempo è una mente attiva implicata in percezioni dualistiche, dato che è necessario all’inizio usare quella specie di giudizio discriminante. Consapevolezza è vedere la scoperta della presenza mentale. Non dobbiamo gettar via né conservare i contenuti della mente. La precisione della presenza mentale può essere lasciata com’è, dato che ha il suo proprio ambiente, il suo proprio spazio. Non siamo tenuti a prendere decisioni, se gettarla via o custodirla come un tesoro. La consapevolezza è dunque un altro passo verso l’assenza di scelta nelle situazioni. La parola sanscrita per consapevolezza è smriti che significa “riconoscimento”, “reminiscenza”. Reminiscenza non nel senso di ricordare il passato, ma nel senso di riconoscere il prodotto della presenza mentale. La presenza mentale procura un certo terreno, un certo spazio per il riconoscimento dell’aggressività, della passione e così via. La presenza mentale fornisce l’argomento o i termini o le parole, e la consapevolezza è la grammatica che connette e pone correttamente i termini. Avendo sperimentato la precisione della presenza mentale potremmo chiederci: “che cosa dovrei farne? Cosa posso fare dopo?”. E la consapevolezza ci rassicura che, in effetti, non dobbiamo farne niente, ma possiamo lasciarla nel suo luogo naturale. E’ come scoprire un bellissimo fiore nella giungla; dovremmo coglierlo e portarcelo a casa o lasciarlo nella giungla? La consapevolezza dice di lasciare il fiore nella giungla, dato che, per quella pianta, quello è il posto naturale in cui crescere. Così la consapevolezza è propensione a non attaccarsi alle scoperte della presenza mentale, e la presenza è semplicemente precisione; le cose sono quello che sono. La presenza mentale è l’avanguardia della consapevolezza. Facciamo balenare la luce su una situazione e quindi diffondiamo quell’evidenza nella consapevolezza.
La presenza mentale e la consapevolezza operano dunque insieme per produrre l’accettazione delle situazioni della vita così come sono. Non abbiamo bisogno di lasciarci andare nella vita o di boicottarla. Le situazioni della vita sono il nutrimento della consapevolezza e della presenza mentale; non possiamo meditare senza le depressioni e gli entusiasmi che continuamente si presentano durante la vita. Camminando con la scarpa del samsara, la logoriamo attraverso la pratica della meditazione. La combinazione di consapevolezza e presenza mentale sostiene il viaggio, così la pratica della meditazione o lo sviluppo spirituale dipendono dal samsara. Da un punto di vista aereo potremmo dire che non c’è bisogno di samsara o di nirvana, che è inutile intraprendere il viaggio. Ma, trovandoci sulla terra, intraprendere il viaggio è cosa straordinariamente utile.
– Da: Il mito della libertà – Chogyam Trungpa
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– Chogyam Trungpa su it.wikipedia
– Fonte: http://www.rebirthing-italia.com