Agli italiani piace sempre di più. L’invito è per le 8 e non è una cena, ci si vede per meditare insieme. Seduti nella posizione del loto, non in una grotta sull’Himalaya ma fra i divani di casa e il tinello. A occhi chiusi si scandisce un mantra che svuoterà la mente, farà sparire la tensione della giornata e levigherà le rughe. Dopo un’ora, chiunque lo abbia fatto almeno una volta nella vita sa che qualcosa è cambiato. In meglio.
Sempre più italiani si affidano alla meditazione, gente che fino a qualche anno fa avrebbe riso di quelli che all’alba facevano tai chi al parco oggi va oltre: camminate meditative sui bordi dei vulcani, soggiorni in monasteri di montagna dove si prega e si puliscono i bagni, viaggi alla ricerca dell’ultimo festival tantrico. Oppure, come è successo in marzo a Roma, al primo festival della meditazione (con 200 visitatori al giorno), per arrivare alla quiete bisognava visualizzarsi come una canna di bambù: forti e fragili, mi piego e non mi spezzo. “Sentirsi vuoti come un bambù e al tempo stesso flessibili dà un senso di libertà” racconta Elena, che spesso utilizza questa tecnica. Perché meditare fa bene. “Insomma, ai monaci cambogiani massacrati dai khmer rossi non è che ha fatto così bene” sorride Riccardo Venturini, professore di psicofisiologia alla Sapienza, maestro della Scuola buddista Tendai e guida del Centro di cultura buddista della capitale. Ma la Cambogia è lontana. Da noi, invece, i centri di ogni genere si moltiplicano: meditazione yoga, zen, vipassana, buddista, trascendentale, induista, taoista, dei nativi americani, shake-balinese. Si pratica su cuscini o tatami, in pantaloni da pescatore alla thailandese o vestiti di bianco, scuotendo il corpo o immobili, concentrati sul respiro.