Dialogo estemporaneo che ha come tema di fondo la comprensione della rabbia, della sofferenza che comporta e del modo per superarla con l’aiuto della meditazione.
– Una volta sorta la rabbia non può essere soppressa, si tratta di un’energia che va utilizzata ed orientata verso scopi positivi e costruttivi.
– Nella pratica della meditazione vipassana si fa appunto questo. La rabbia in sé non si può osservare, ma è possibile osservare le sensazioni che la compongono. Si possono osservare i sintomi che, allorché si manifestano, fanno sì che noi sperimentiamo la rabbia (o qualunque altro sentimento). Poiché ogni emozione è composta di sensazioni, scomponendola, possiamo osservare il processo di produzione condizionata nel momento in cui avviene dentro di noi, arrestarlo e consentire all’energia congestionata nella rabbia (o in altre emozioni negative) di fluire e di rendersi disponibile per scopi salutari anziché nocivi.
In realtà si possono scrivere libri su libri su come si affronta la rabbia, ma finché non si pratica la vipassana si rimane sempre a livello teorico. Come non è leggendo libri sul nuoto che si impara a nuotare, così la lettura dei libri di Dharma, se non porta a praticare seriamente, è solo un passatempo.
– Potresti farmi un esempio pratico di qualcosa che ti è successo, che ti ha suscitato rabbia, e di come in pratica sono avvenute queste fasi di risoluzione e reindirizzamento?
– La prima volta che mi decisi ad affrontare una sofferenza esistenziale mettendo a profitto quel che avevo imparato nei corsi di vipassana fu molti anni fa. Avevo avuto un brutto litigio, di quelli nei quali si dicono cose che non si vorrebbero dire né ascoltare mai. Ero addolorato e rabbioso, con una “mappazza” allo stomaco che mi stringeva dolorosamente. [Si definisce mappazza, uno stato tipico dello stomaco che viene creato dall’ingerimento di sostanze poco assimilabili. Sinonimo o sintomo di mappazza è la pesantezza, il sonno, stato confusionale (se provocato da sostanze alcoliche) e da bruciore. – NdR].
Provai a distrarmi con la tv, ma niente: non riuscivo nemmeno a concentrarmi sulle immagini. La mente continuava a prillare (girare su se stesso con rapidità – NdR) come una trottola, a ritornare ripetutamente al litigio, a quel che era stato detto e a quel che avrei dovuto dire e non avevo detto, ad alimentare pensieri di rivalsa e di autocommiserazione. Spensi il televisore e mi sdraiai sul divano. Il tumulto interiore continuava e le sensazioni nel corpo erano molto acute e sgradevoli. Fu allora che la meditazione mi venne in aiuto: quasi senza accorgermene, l’abitudine acquisita con la pratica fece sì che, invece di respingere i sintomi che provavo, cominciai ad esplorarli con un atteggiamento mentale di accettazione. Cominciai pazientemente a sperimentare a una a una le sensazioni brucianti, cercando di sentirle interamente, cercandone l’origine e la fine. Fu allora che mi resi conto, piacevolmente stupito, che queste sensazioni, se osservate, fluivano più rapidamente e principiavano a dissolversi, lasciando dietro di sé una leggera, piacevole sensazione di tepore che pervadeva tutte le membra del corpo. Portai l’attenzione sulle estremità (palme delle mani e piante dei piedi), ve la tenni per un po’ e infine incredibilmente mi addormentai. Al risveglio, che avvenne qualche minuto dopo, tutta la rabbia e il dolore se n’erano andati ed io mi sentii fresco e pieno di energie come non mai.
– Ma di quel processo di “scomposizione” di cui parli non mi sembra di vedere ombra, non vedo nulla che io possa chiamare in questo modo.
– Non è cosa che avvenga pensandoci. Il pensiero è un ostacolo alla meditazione. L’errore più comune è quello di credere che un problema, un dolore, una rabbia, un rancore passino pensandoci. Tutto il contrario: il pensiero (che è più o meno sempre compulsivo) incrementa la sofferenza percepita. Si tratta invece di osservare le nude sensazioni così come sono. Si può imparare, ma bisogna essere disposti a sottoporsi al training intensivo che dura dieci giorni. Come dicevo poc’anzi, per imparare a nuotare bisogna buttarsi nell’acqua. Se si vuole evitare di annegare, bisogna imparare a nuotare. Lo stesso è con la vipassana: va imparata in pratica, non in teoria.
– Quello che descrivi va bene, lo faccio anch’io anche se non lo capivo sotto il nome di *scomposizione*, gestivo in questo modo l’ansia, gli attacchi di panico, le fobie, gestisco il dolore fisico con questo metodo. Ma non è una soluzione al problema che ha generato la rabbia, o la paura o altro ancora.
– Se, come dici, “lo fai” anche tu allora con la pratica dev’esserti anche penetrato nella carne e nelle ossa un altro modo di vedere le cose e le persone. Se in meditazione percepisci sempre il tuo corpo come un fascio di energia impermanente, instabile, ingovernabile e insostanziale non cambia solo il rapporto con il tuo corpo, ma anche quello con le altre “persone”. La “cognizione” dell’impermanenza e della vacuità di consistenza soggettiva a questo punto non è più solo un concetto di cui scrivere e discutere, ma una realtà percepita. E le cose non hanno più la stessa presa. Se però, come diceva Ayya Kkhema, credi che la sofferenza debba sparire, allora sbagli: non è la sofferenza, ma la persona che soffre che se ne va.
– Dalla mia esperienza invece, ho l’impressione che sarebbe auspicabile che la meditazione – perché dia il massimo dei sui frutti – non fosse disgiunta da altri elementi essenziali che caratterizzano il buddhismo, gli insegnamenti e le altre pratiche.
– … gli elementi del Buddhadhamma sono originati dalla pratica meditativa e non viceversa. Non è necessario né utile sforzarsi di correggere il proprio modo di pensare, perché il cambiamento — nel modo di pensare e nella vita — avviene automaticamente se si pratica in modo corretto. La continua percezione (subliminale durante la pratica) dell’impermanenza, della decadenza ecc. che avvengono ad ogni istante nel nostro stesso corpo porta necessariamente a una visione del mondo e a un modo di vivere in sintonia col Buddhadhamma. Ma possiamo continuare a parlarne all’infinito: ti potrai convincere solo se sperimenti tu stessa la realtà, rendendoti disponibile a intraprendere la vipassana per il periodo necessario.
Flavio Pelliconi
(Dialogo estemporaneo tratto dal Digest Number 3182 di “Risveglio”, gruppo di discussione e condivisione sulla pratica della consapevolezza, in data “domenica 28 ottobre 2007”)
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Articolo interessantissimo. Sono rimasto molto colpito dall’affermazione secondo la quale “Non è necessario né utile sforzarsi di correggere il proprio modo di pensare, perché il cambiamento — nel modo di pensare e nella vita — avviene automaticamente se si pratica in modo corretto”. Io penso che in parte quanto detto sia giusto, ma credo che per riuscire a conoscersi meglio ed evitare ‘esplosioni’ sia molto utile rendere il proprio modo di pensare piu funzionale e adeguato. Con piccoli cambiamenti nel nostro modo di pensare possiamo evitare molti momenti di malessere.
http://drcollevecchio.wordpress.com/2014/02/15/spegni-la-tua-rabbia/