Kodo Sawaki, uno dei più grandi maestri zen del nostro tempo, sperimentò molto presto la legge dell’impermanenza che governa tutte le cose: aveva pochi anni quando perdette entrambi i genitori. A nove anni assistette alla morte di un anziano cliente tra le braccia di una giovane prostituta: fuggì via e decise, tra mille difficoltà, di farsi monaco. Frattanto era scoppiata la guerra tra il Giappone e la Russia e il giovane Kodo vi partecipò finché una pallottola gli trapassò le guance ferendolo seriamente alla lingua. Per riacquistare l’uso della parola passava molte ore a recitare Sutra tra il rumore delle cascate.
Divenuto monaco, scelse una vita libera come l’acqua e il vento: andava di tempio in tempio, di città in villaggio, insegnando a tutti a sedersi in meditazione, anche ai carcerati. Diceva: “Non ho bisogno di titoli, non ho bisogno di templi, non ho bisogno di riconoscimenti, non ho bisogno di donne, non ho bisogno dell’illuminazione”. Lo chiamarono perciò “Kodo, senza tempio senza dimora”. Camminando visse in contatto con la natura, gli alberi, le pietre, gli animali, gli uomini.
Il suo spirito era sereno, raccolto in sé e scorreva come l’acqua del fiume: una notte che si era addormentato ai margini del bosco, fu risvegliato da voci nel buio e si trovò in parte bagnato dall’orina. Era di alcuni mendicanti, che non lo avevano visto. Kodo non si adirò, anzi fraternizzò con loro e fecero insieme un lungo tratto di cammino.
Un’altra volta andò a trovare sua sorella che aveva sposato un povero pescatore. Questa, vedendolo tutto stracciato, lo implorò di rimanere per sempre con lei: erano poveri, ma potevano mangiare pesce tutti i giorni. Dopo qualche tempo Kodo salutò sua sorella e suo marito e riprese la via. Viveva di riso e prugne e nella sua immensa compassione aveva fatto voto di non cibarsi di nessun essere vivente.
Aveva un’intima convinzione; diceva: “Gli uomini ammucchiano conoscenze, ma io penso che il fine ultimo sia poter sentire il suono della valle e guardare il colore della montagna”.
Visse come un mendicante antico per le strade del Giappone moderno, disorientato dal progresso e scioccato dalla bomba atomica. Solo quando morì trovarono un quaderno su cui aveva annotato pochi pensieri. Non si curò delle sue spoglie mortali che lasciò ai medici per la dissezione.
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Vorrei aggiungere alcune righe tratte dal sito ufficiale del tempio Zen fondato dal maestro vicino a Osaka, tuttora esistente e gestito dal giovane abate tedesco Muho. E’ uno dei pochi monasteri rimasti visitabili gratuitamente, in cui i monaci sono realmente tali e non solo meri albergatori.
“Sawaki Kodo divenne abate di Antaiji nel 1949, quando il tempio si trovava ancora a nord di Kyoto. Sawaki Roshi è stato il maestro Zen che ha riportato il degenerato Zen del XX secolo all’originalità della sua tradizione: la pratica dello Zazen senza aspettarsi nulla in cambio. Insieme al suo studente, Uchiyama Kosho Roshi, ha trasformato Antaiji da un luogo legato allo studio teorico dei testi Buddhisti, come lo Shobogenzo, a un luogo per lo Zen e la pratica basata sul puro zazen. Uchiyama Roshi, diventato monaco con Sawaki Roshi nel 1941, si prese cura di Antaiji, mentre Sawaki Roshi era impegnato a viaggiare per tutto il Giappone per condurre i sesshin: settimane intensive di zazen. Ogni mese, anche ad Antaiji si svolge uno di questi sesshin. Nel 1962 Sawaki finalmente si stabilizzò ad Anatiji a causa di alcuni problemi legati alle gambe. Nel monastero, fu Uchiyama a prendersi cura di lui fino alla sua morte nel Dicembre del 1965. Subito dopo la morte di Sawaki Roshi, invece della classica cerimonia funebre, Uchiyama Roshi decise di condurre un sesshin di 49 giorni in sua memoria. In questo modo ha enfatizzato e sottolineato l’impegno di Sawaki nei confronti dello Zazen, che non potrà mai essere sostituito da qualsiasi tipo di rituale o cerimonia. I 49 giorni di sesshin hanno dato inizio anche ad un nuovo “Antaiji style”: sesshin senza giochi – no agli incontri sul dharma, no alle letture dei sutra, no alle convesazioni e ai dialoghi, no kyosaku, no samu.”
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Kodo Sawaki
Buono e cattivo sono concetti relativi che non esistono realmente. Lo stesso è per la verità e l’illusione. Il buono non potrebbe esistere senza il cattivo. E’ semplicemente il karma dell’uomo che produce dualismo e determina che cosa è buono e che cosa è cattivo.
Che cosa rende gli uomini felici nel loro piccolo e minuscolo mondo?
A loro piace divertirsi e ricevere doni. Reputano la nascita essere un evento felice, mentre potrebbe essere qualcosa di molto sfortunato se il bambino fosse malato o diventasse un teppista. Il matrimonio è anche considerato essere un motivo per le congratulazioni anche se la moglie potrebbe essere sposata con un ubriacone. Gioia e sofferenza sono nozioni relative che possono cambiare ed essere ingannevoli. Niente permette di dire ad alcuno di essere sicuro al 100% che quello è un evento felice e quell’altro infelice. Dentro il buono c’è il cattivo e dentro il cattivo c’è il buono. Buono e cattivo non esistono di per sé.
Per il momento, il seguente commento di Shinran è evidente:
“Uno non deve trovare virtù nella gloria né sentire paura del male.
Ciascuno ed ogni uomo non è né buono né cattivo.”
(Da Bollettino Zen n° 65, AZI – Trad. F. Parente)
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